Paziente veneto ottiene l'ok al fine vita in Svizzera, ultima richiesta: "vorrei morire a casa mia"

Il paziente veneto Roberto ottiene il via libera in Svizzera e attende la valutazione della Asl per poter scegliere il fine vita in Italia.

04 dicembre 2025 11:04
Paziente veneto ottiene l'ok al fine vita in Svizzera, ultima richiesta: "vorrei morire a casa mia" -
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VENEZIA Una vicenda umana e giudiziaria complessa, che riporta al centro del dibattito il tema della libertà di scelta nel fine vita. Roberto, 67 anni, paziente veneto affetto da un glioma diffuso diagnosticato nel 2006, ha ottenuto il via libera in Svizzera per accedere al suicidio assistito, ma il suo desiderio è un altro: poter morire in Italia, nella sua casa, circondato dai suoi affetti.

Un percorso difficile tra burocrazia, dolore e peggioramento clinico

Dopo il primo diniego da parte della sua azienda sanitaria, Roberto ha attivato la procedura svizzera, che gli ha concesso l’autorizzazione. Il peggioramento delle sue condizioni – crisi epilettiche quotidiane, difficoltà motorie, cadute frequenti e un progressivo deterioramento cognitivo – lo ha spinto a chiedere una nuova rivalutazione alla sua Asl, con il supporto del team legale dell’Associazione Luca Coscioni, guidato dall’avvocata Filomena Gallo.

È ora in attesa della relazione della commissione sanitaria, che dovrà stabilire se sussistono i requisiti previsti dalla sentenza Cappato della Corte costituzionale per poter ricorrere al suicidio assistito in Italia.

“Voglio andarmene sereno nella mia casa”

Roberto ha espresso in modo chiaro la sua volontà:
«Si è acceso per me il semaforo verde vicino a Zurigo. Voglio ottenerlo anche qui. Voglio andarmene sereno in casa mia. Ho riaperto la procedura con la Asl e mi batterò in ogni modo per ottenere il via libera. Per me e per tutte le persone che vogliono lasciarci con dignità, ponendo fine alla sofferenza senza rinunciare all’autonomia».

Le sue parole mettono in luce il desiderio di una scelta consapevole e rispettosa della propria storia personale, oltre al bisogno di un quadro normativo chiaro che eviti a chi soffre lunghi percorsi burocratici.

Una diagnosi infausta e nessuna terapia disponibile

Roberto convive da quasi vent’anni con una forma aggressiva di tumore cerebrale che, negli ultimi anni, ha compromesso in modo severo la qualità della sua vita. Le terapie non offrono più prospettive, la prognosi è infausta e l’intervento chirurgico proposto comporterebbe rischi molto elevati, senza alcuna garanzia di recupero.

A ottobre 2024 aveva presentato la domanda formale alla Asl per verificare la possibilità di accedere al suicidio assistito in Italia, come previsto dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. A maggio 2025 era arrivato il rifiuto: secondo l’Asl, non rientrava nel requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Da qui la scelta di percorrere la strada svizzera.

Il ruolo dell’Associazione Luca Coscioni: “Serve una valutazione più aderente alla realtà clinica”

L’avvocata Filomena Gallo, coordinatrice del team legale, sottolinea:
«Il tumore di Roberto può peggiorare all’improvviso, portando a una perdita rapida delle funzioni cognitive o a uno stato vegetativo. Roberto vuole evitare questo scenario, potendo decidere tempi e modalità della propria fine mediante autosomministrazione del farmaco, senza rischiare di perdere la capacità di scegliere».

La giurista spiega inoltre che l’intervento chirurgico proposto non garantisce né il risveglio né la qualità delle eventuali condizioni post-operatorie. «È indispensabile che i medici della commissione valutino la sua situazione considerando la prognosi, il rifiuto dell’intervento invasivo e l’assenza di terapie efficaci come elementi validi ai fini della procedura» aggiunge.

E avverte: in caso di un nuovo diniego, la difesa è pronta a ricorrere nuovamente al tribunale per tutelare il diritto di Roberto alla autodeterminazione terapeutica.

Un caso che riaccende il dibattito sul fine vita

La storia di Roberto rappresenta uno dei casi più significativi nel panorama nazionale, evidenziando il divario tra decisioni giudiziarie, prassi sanitarie e condizioni cliniche reali. La sua battaglia, oltre al dramma personale, riapre la discussione sulla necessità di regole chiare e uniformi per garantire alle persone gravemente malate un percorso definito, senza incertezze o ricorsi obbligati all’estero.

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