Infermieri e medici Veneziani uniti: stop alla violenza contro gli operatori sanitari
Ben 85 nel 2022 gli episodi segnalati in Italia di violenza ai danni di operatori sanitari, contro i 60 del 2021 (dati Ministero della Salute). E, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra l...
Ben 85 nel 2022 gli episodi segnalati in Italia di violenza ai danni di operatori sanitari, contro i 60 del 2021 (dati Ministero della Salute). E, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra l’8 e il 38% di chi lavora a protezione della salute di tutti subisce violenza fisica a un certo punto della propria carriera: molti di più sono minacciati o esposti ad aggressioni verbali da parte di pazienti e familiari.
Episodi di inciviltà e aggressività in aumento e probabilmente sottostimati che non vanno sottovalutati e che, in vista della seconda Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari, che si celebra domani 12 marzo 2023, spingono infermieri e medici veneziani a unirsi ancora una volta per lanciare un forte appello ai cittadini: «Basta alle violenze in corsia e negli ambulatori, rispettate chi si prende cura di voi, altrimenti poi la vita chi ve la salva?».
«Il nostro territorio purtroppo – sottolinea il presidente dell’OMCeO veneziano e vicepresidente FNOMCeO Giovanni Leoni – non è immune da questo fenomeno: pensando solo all’anno scorso ricordiamo i medici di famiglia di Cavallino Treporti e di Noventa di Piave insultati nei loro ambulatori, la dottoressa dello IOV di Padova ferita con un coltello, l’infermiera incinta presa a pugni da un paziente in un ambulatorio di Mira, l’aggressione e i danni in pediatra all’Angelo, le intimidazioni nei centri vaccinali… Sono episodi inaccettabili: questa violenza va fermata ad ogni costo».
«Le aggressioni fisiche o verbali sul posto di lavoro – aggiunge Marina Bottacin, presidente dell’Ordine Infermieri di Venezia (OPI) – colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri, la categoria professionale più numerosa in assoluto del Servizio sanitario nazionale e della sanità in generale. Si tratta del 33%, circa 130mila casi, e se si tenesse conto conto del “sommerso” non denunciato all’INAIL, il dato potrebbe raddoppiare. Il 75% delle aggressioni riguarda donne. Lavorare poi come infermiere nell’area dell’emergenza e urgenza aumenta di oltre due volte la probabilità di subire violenza rispetto a lavorare in area medica».
Un fenomeno che, purtroppo, neanche la pandemia, con la sua retorica degli eroi, ha contribuito a limitare. Negli ultimi anni, però, sono state messe in campo azioni di contrasto a livello istituzionale, a partire dal neonato Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie che, finalmente, a gennaio si è insediato e ha avviato i suoi lavori per un monitoraggio puntuale del fenomeno.
E poi ancora la legge 113 del 2020, fortemente voluta dalla FNOMCeO e approvata all’unanimità dal Parlamento, «che – prosegue il presidente Leoni – inasprisce le pene per chi aggredisce medici e infermieri e introduce la procedibilità d’ufficio in caso di violenza in corsia. La legge, però, deve essere applicata con rigore in ogni singolo caso».
«Le conseguenze materiali per i professionisti delle aggressioni fisiche – continua la presidente Bottacin – vanno nel 32% dei casi da escoriazioni e abrasioni a fratture e lesioni dei nervi periferici, fino anche, seppure in pochi casi, all’invalidità. La principale conseguenza psicologica è il burnout che colpisce il 10,8% degli infermieri che hanno subito violenza. I dati sono preoccupanti e la situazione è ancora più drammatica se teniamo conto che questo sta incidendo pesantemente anche sul fenomeno dell’abbandono della professione: in Italia il 36% degli infermieri dichiara di voler lasciare il luogo di lavoro entro 12 mesi; di questi il 33% dichiara di voler lasciare la professione».
«Un tempo – concludono i presidenti Bottacin e Leoni – gli ospedali erano luoghi rispettati, oggi sono posti in cui la sofferenza si trasforma in rabbia, dove si pretende tutto, subito e ad ogni costo. Luoghi sempre meno sicuri, in cui un diverbio può sfociare in una tragedia. Bisogna, allora, fare un cambio di passo culturale: recuperare la dimensione umana nell’assistenza e il calore della solidarietà che è alla base della relazione di cura. Serve rispetto per chi combatte ogni giorno contro le malattie e serve anche più sorveglianza, con l’impiego dei tanti sistemi di sicurezza altamente tecnologici oggi a nostra disposizione. Solo così si potrà restituire serenità a chi esercita queste delicate professioni di aiuto e si spende ogni giorno con professionalità, impegno e sacrificio per la tutela della salute di tutti».